di Andrea Bocchiola
Due anni fa Andrea Bocchiola, esponente del Club Alpino Accademico Italiano, formidabile alpinista che ha contribuito a scrivere alcune delle più significative pagine dell’alpinismo ossolano degli ultimi anni, già docente universitario di Etica della Filosofia, raffinato intellettuale e analista , interveniva sul delicato rapporto tra uomo e ambiente a proposito del modello di sviluppo proposto all’Alpe Devero. Ci sembra che le sue parole siano ancora attualissime e le proponiamo ai nostri lettori.
Nel Parco della Barre des Ecrins, in Francia, non ci sono impianti di risalita, non c’è copertura cellulare e i sentieri non sono segnati. Il parco è frequentatissimo.
Qui dove sono, mentre scrivo, la natura è selvatica e pericolosa. Il cellulare prende poco o nulla e all’ingresso dell’area un cartello avvisa che da quel punto in poi ognuno è responsabile di se stesso. Non sono disperso chissà dove in Karakoram. Sono in California, nella zona dei Needles, e siamo in tanti, alpinisti, scalatori, hikers. Nessuno sembra aver bisogno di nient’altro che del poco che c’è. Ossia niente. Nessuno pensa a sconvolgere questo spazio con i segni di quella antropizzazione che lo circonda da ogni dove.
Al Devero, piccola nicchia di solitudine alpina sin troppo sotto assedio, si pensa invece di penetrare persino quel poco di spazio selvatico rimasto, la valle del Bondolero e un tratto del Cazzola, con degli impianti di risalita. La cosa, vista da così lontano, è ancora più incomprensibile e inusitata.
Non penso alle molte ragioni ambientaliste, economiche, logistiche che si oppongono al progetto. Altri più addentro di me lo stanno già facendo. Penso a qualcosa di più profondo, che sta a monte di questo occasionale progetto di sviluppo turistico. Penso alla sempre più estesa intolleranza verso tutti quegli spazi che non sono a misura d’uomo. All’urgenza panica di riempire ogni spazio, materiale e immateriale con qualcosa che lo riduca alla nostra miserabile misura d’uomini. Di non lasciare che un vuoto, una briciola di inquietante estraneità si insinui nel nostro pensiero e nella nostra esperienza. Di impedire alla estraneità, che sia quella della natura o quella, nei nostri tragici e mediocri giorni, del migrante, o semplicemente dell’altro da noi di insinuarsi nel nostro campo di azione. Pensate, per fare un esempio banale, alla musica diffusa sugli impianti da sci. A cosa serve se non a saturare un momento di vuoto, di inazione, a tamponare chissà quali pensieri rischierebbero di saltare alla mente.
Vogliamo ridurre a questo l’Alpe Devero o tutte le nostre montagne? Vogliamo ridurre a questo lo spazio alpino? Allora bisogna ricordare che questa operazione sciagurata non è solo qualcosa che facciamo alla natura. È qualcosa che facciamo a noi e alla nostra vita intima e profonda. La mano che cancella il mondo fuori di noi, nella sua meravigliosa estraneità, è la stessa che cancella la misteriosa vita intima dei nostri pensieri. Facciamo. In cambio avremo una doppia distruzione. Lo scrivo da psicoanalista, lo scrivo da alpinista accademico del CAI, lo scrivo semplicemente da uomo di montagna. E spero che altri uomini di montagna come me, la maggior parte amici, alcuni amici fraterni, possano e vogliano condividere queste mie parole.