di Luca Mozzati, agosto 2020
Alla retorica domanda “perché vai in montagna?” – e qui per andare in montagna si intendono la pratica dell’alpinismo e quella dell’arrampicata – sono state date innumerevoli risposte, più o meno vaghe o circostanziate, contingenti o assolute, senza ovviamente trovarne mai una realmente soddisfacente. Che senso ha una pulsione che spinge ad affrontare disagi e pericoli spesso assai gravi, per di più apparentemente in assenza di qualsivoglia motivo o vantaggio pratico, una pulsione che riemerge implacabile dopo ogni avventura e può assumere una forza coercitiva tremenda, tale da sfociare in autentica monomania ossessiva che obbliga a lasciare casa e famiglia, lavoro e amici, comfort e letture? Una pulsione – che a volte ha la forza di un imperativo categorico – che sfugge a spiegazioni razionali e che, a differenza di altre discipline che solitamente sono definibili come sport, spinge chi la asseconda a rischiare consapevolmente la propria pelle in quello che sembra un gioco assurdo e senza senso.
Un demone così irresistibile deve avere radici lontane e profonde, costituirsi come parte essenziale e irrinunciabile del nostro essere. Deve essere parte del nostro DNA. Un DNA che non si è evoluto al passo con la vertiginosa trasformazione che l’Homo Sapiens ha compiuto negli ultimi diecimila anni, quando da cacciatore – raccoglitore si è trasformato in domesticatore –allevatore, iniziando quel processo di vertiginosa trasformazione dell’ambiente che lo ha portato alla rivoluzione scientifica prima e a quella tecnologica che è appena iniziata. Ma l’evoluzione dei caratteri genetici è abissalmente più lenta, e i nostri codici sono ancora in buona parte quelli, durati ben oltre due milioni di anni, dei cacciatori – raccoglitori. Milioni di anni nei quali i nostri antenati andavano a caccia di mammut.
La presenza di questi caratteri ancestrali, ovviamente non modificabili negli ultimi diecimila anni, costringe esploratori e scalatori – che altro non sono che esploratori di un ecosistema verticale – a mettere in gioco la propria esistenza e spingersi nell’ignoto, alla ricerca di qualcosa che oggi non esiste più ma che allo stesso tempo è ancora necessario alla nostra esistenza e al nostro equilibrio.
E qui ci salva l’arrampicata, come sostituto di quella caccia al mammut così necessaria alla nostra sopravvivenza da aver inscritto nel nostro codice genetico la propensione al rischio, prepotentemente riemersa come “fascino dell’abisso” a partire dalla scoperta del Sublime nella cultura del Settecento, un Sublime che in Europa ha trovato le Alpi come luogo d’elezione. Alpi che poco dopo furono oggetto di una emozionante “conquista dell’impossibile” che però ormai si è esaurita, non per mancanza di cime da scalare, ma per scomparsa dell’essenza stessa dell’impossibile.
Anche a Devero, da dove scrivo, la storia ha fatto il suo corso, le vette sono state salite, le pareti scalate una dopo l’altra, quindi suddivise in “nuovi problemi”, che le nuove generazioni regolarmente risolvono. Lo spazio si stringe e finisce per esaurirsi. Proprio quello spazio vergine necessario per cacciare il mammut.
E’ per questo che si impone un ragionamento: per il nostro benessere e quello delle future generazioni, è necessario lasciare terreni di caccia liberi e aperti, privi di segni di passaggio, dove ognuno possa trovare e assaporare una delle sensazioni più aborrite dalla società odierna, ma di cui siamo assetati: l’INCERTEZZA.
E questa incertezza, tradotta in termini arrampicatori, significa non realizzare più percorsi attrezzati, volti a “garantire la sicurezza”, una sicurezza che non solo è fisicamente impossibile da ottenere in montagna e in parete, ma, come abbiamo visto, è addirittura il contrario di quello che ci spinge in parete. Perché è qui che oggi andiamo per appagare il bisogno di affrontare il mammut. Altrimenti, con la scusa di rendere possibile la caccia attrezzandola artificialmente, si finirà per privarsi dell’esperienza stessa della caccia che si voleva garantire.
Gli ultimi decenni hanno visto ovunque il proliferare insensato di scalate “plaisir”, nate dapprima nelle falesie per garantire divertimento e sicurezza (necessità quest’ultima scaturita della società nata con l’agricoltura), e poi sempre più in alto, respingendo a colpi di trapano e infissi meccanici l’ignoto che resisteva sulle pareti più selvagge, fino ad arrivare al lontano Fitz Roy. Come a dire “COLPO SICURO AL MAMMUT”.
Per questo sarebbe bello, e soprattutto importante e culturalmente vincente sotto mille aspetti, che in una zona come l’area protetta di Devero, dove da anni ci si batte contro un insensato progetto di infrastrutturazione, fosse istituita, almeno per le nuove salite, una “NO SPIT ZONE” – già proposta nel Parco Nazionale della Valgrande – in modo da garantire, anche in questo microcosmo di natura verticale relativamente intatto, la sopravvivenza di pareti libere dove i nostri geni, e quelli dei nostri successori, possano continuare liberi e felici ad avventurarsi nei selvaggi territori di caccia per affrontare quel mammut che, da milioni di anni, è necessario alla nostra esistenza.
Luca Mozzati, agosto 2020
DISCLAIMER: l’arrampicata è un’attività rischiosa, ognuno scelga percorsi secondo le proprie capacità e si assicuri coscienziosamente secondo le proprie necessità
Bello! Grazie Luca. L’incertezza è l’unica risorsa che ci rimane, su queste Alpi sempre più ristrette ed assediate. Sorpresa e l’imprevedibilità rendono infinite le possibilità di percezione che possiamo sperimentare lungo creste e pareti, senza alcun impoverimento nè consumo…