di Luca Mozzati
Una proposta anomala
Tre o quattro ore di approccio per pochi metri di arrampicata, oltretutto su rocce che possono apparire poco attraenti. Ha senso oggi una proposta di questo tipo? Credo decisamente di sì, uno stimolo a vivere un’esperienza dove l’arrampicata è sostanzialmente un pretesto – ma che meraviglioso e forse irrinunciabile pretesto! – per entrare in un tempo e uno spazio dove nulla è scontato.
Le guglie di Cornera sono i due torrioni – che si manifestano solo in determinate condizioni di luce, dato che solitamente preferiscono restare confusi con le pareti retrostanti – che emergono da una colossale colata di massi e detriti all’imbocco del selvaggio vallone del Passo di Cornera, che separa il gruppo Helsenhorn/Boccareccio da quello del Cornera/Cervandone. Sono la dimostrazione della caducità di quanto esiste, ruderi smozzicati di strutture antiche, sopravvivenza temporanea di un rovinoso cataclisma, dimostrazione e monito di come il tempo possa improvvisamente contrarsi e modificare ogni elemento. Monumento alla precarietà. Una terza guglia, storicamente nota, crollò su Buscagna nel 1910, e forse fu questo avvenimento a stimolare gli arditi scalatori del tempo a salire le due guglie superstiti prima che scomparissero, metafora quasi del tentativo di umanizzare la dimensione incomprensibile delle ere geologiche.
E se questi non sono motivi più che validi per andare a vedere, chiediamoci quali altre molle, se non quelle sportive, ci spingano ad arrampicare.
Guglia Abele Miazza
E’ l’esile e ardito pinnacolo di destra (ovest) per chi guarda da Devero, oggetto del primo tentativo noto di scalata, condotto da Christian Almer Junior il 25 luglio 1891, il quale fu respinto “dall’estrema pericolosità delle rocce, che minacciavano di crollare da un momento all’altro, e dalla totale mancanza di appigli”.
Nella guida di Luciano Rainoldi “L’Alpe Devero” del 1976, inattendibile per quanto riguarda le relazioni delle vie, e per questo deliziosamente stimolante in tempi di schizzi anonimi e omogeneizzati, è scritto “Anche la minore delle attuali guglie si è in pochi anni talmente corrosa e sfaldata che la sua caduta non deve essere lontana” , parole che non possono non eccitare la fantasia di chi cerca qualcosa di differente dalle “avventure” preconfezionate e “plaisir” di troppe arrampicate moderne.
La prima salita riuscì il 10 settembre 1913 a Piero Fasana con Abele Miazza. La dedica della guglia a quest’ultimo è dovuta al celebre Eugenio Fasana, fratello maggiore di Piero, unico sopravvissuto nel incidente sul Torrione Magnaghi in Grigna, che il 15 maggio 1914 costò la vita al Miazza ed altri due compagni di cordata, dramma che sconvolse il mondo della borghesia milanese del tempo al punto da assurgere a emblema della “montagna assassina” e guadagnarsi una esemplare tavola di Achille Beltrami sulla Domenica del Corriere. Poche settimane dopo scoppiava la Prima Guerra Mondiale e il Beltrami avrebbe retoricamente raccontato altri drammi.
“I fratelli Boni (Camillo, Alessandro Nino e Leonello) erano originari di Ferrara e trascorrevano le estati a Mozzio in Valle Antigorio. Colti e benestanti, appartenevano ad una famiglia legata alle Alpi Lepontine. La madre era infatti cugina di Giovanni Leoni, il poeta dialettale Torototela che nel 1900 promosse la realizzazione del rifugio alpino sul Monte Cistella.
In quindici anni (dagli anni ‘20 alla metà degli anni ‘30 del Novecento) esplorarono sistematicamente guglie e torrioni sui contrafforti minori della catena. Trascorrevano campagne alpinistiche in Devero “coll’aiuto di ragazze entusiaste non so se più di loro o della montagna” (Aldo Bonacossa) di cui rimane traccia nella toponomastica alpinistica. Il loro nome rimane su due vette: il Pizzo Boni nel vallone di Solcio e la Guglia Boni, una delle due pericolanti e sbilenche torri nel massiccio di Cornera scalata nell’agosto 1924.” (Paolo Crosa Lenz, ALMANACCO STORICO OSSOLANO 2007 – Ed. Grossi – Domodossola)
Accesso
Da Devero a Buscagna e da qui al bivacco Combi e Lanza, che si raggiunge per ripido sentiero sulla destra dalla fine della piana (circa 2 ore e mezza).
Dal bivacco si procede per il passo del Cornera, scendendo nella sterminata e desolata morena evitando di passare sotto la parete del Triangolo di Cornera, recentemente interessato da importanti franamenti. Si risale quindi il desolato macereto per raggiungere la base della guglia (circa un’ora e mezza) .
Prima salita: Piero Fasana e Abele Miazza 10 settembre 1913
Lunghezza: 30 metri
Difficoltà: II+
Materiale: friends (fare attenzione nel posizionarli a non causare il crollo della guglia con la spinta delle molle)
Discesa: meglio in arrampicata in quanto la cima non offre ancoraggi affidabili
Relazione
Si sale per gradoni e poi un diedro fessurato e ben ammanigliato lungo la parete settentrionale. A distanza ravvicinata ci si rende conto di essere su qualcosa di effimero e di arrampicarsi su una struttura fragile e caduca, impressione rafforzata quando si guarda attraverso la guglia, che appare sottile come una vela un po’ stracciata.
Guglia Boni m 2780 circa
Massiccio torrione dall’aspetto ostico e severo. E avventurosa fu la prima salita, condotta in due domeniche successive, inframmezzate da una bufera di neve con relativa ritirata epica, da una delle cordate più forti e curiose del tempo, quella dei fratelli Boni, che si valsero anche del lancio di corda e della successiva trazione sulla medesima per superare una difficile ed esposta traversata.
Prima salita: Nino (Alessandro) e Leonello Boni con Tito Perondi, 11 e 19 agosto 1924
Lunghezza: 50 metri
Difficoltà: IV e V
Materiale: martello e 2-3 chiodi (quelli in loco sono pregevoli dal punto di vista storico), cordini, qualche dado e friend
Discesa: corda doppia da 30 metri (su cordone relativamente recente)
Relazione
Raggiunto l’intaglio tra le due torri “si attacca all’altezza dei tre prismi di gneiss sovrapposti e oscillanti poi, servendosi di una fessura, si arriva a un primo pianerottolo triangolare. Con un lancio di corda oltre il secondo pianerottolo, si raggiunge il medesimo, dal quale, una fessura di tre metri, porta a un terzo ballatoio. Di qui una fessura porta successivamente ad un altro ripiano (2 chiodi, molto difficile). Salire per due metri sino al termine di un diedro coperto da un largo tetto. Una fessura orizzontale permette, con acrobatico volteggio, di raggiungere la vetta” (Rainoldi, 1976, p. 146).
Una delle migliori relazioni del Rainoldi, che riecheggia i blocchi oscillanti citati da Nino Boni e aggiorna altri particolari della relazione dei primi salitori.
Ho ripetuto la via con la relazione citata sopra, ma avevo letto anche quella aggiornata, pur meno suggestiva, di Alberto Paleari (Le più belle vie di roccia dell’Ossola dal I al V grado, pag. 146), col quale condivido la passione per questo tipo di salite.
Riassumendo: fessurina con tre blocchi mobili ma affidabili (sì, ci sono davvero!!), espostissima traversata a sinistra in discesa (V, roccia ottima, dove avvenne l’irripetibile lancio di corda), poi a sinistra e per uno strapiombetto a un terrazzo con sosta attrezzata (il che non significa affidabile). Traversare ancora a sinistra, salire, rientrare a destra e per il diedro citato dal Rainoldi compiere l’acrobatico volteggio senza il quale la salita perderebbe interesse.
Bella relazione
Bella relazione! Sono (ero!) un escursionista appassionato ma alpinisticamente scarso. Ricordo i tempi in cui non esisteva il bivacco Combi e Lanza e per raggiungere il Passo Cornera si saliva dritti dalla Buscagna dentro il macereto. Nel 1974 (data incerta ma primi anni ’70) con Dino Vanini e i miei due cognati Marco Bisiach e Giambattista Bertolazzi abbiamo salito la cresta del Boccareccio da Passo Cornera – Finestra di Boccareccio – Vetta del Boccareccio e rientro in Buscagna dal versante di Veglia traversando alti sulle Caldaie. Ricordo quegli ambienti come bellissimi, affascinanti nella loro rovina ma spaventosi per l’instabilità delle rocce e la “fluidità” dei macereti, specie nei canalini attraversati durante la discesa. Mi chiedo, e chiedo a Luca Mozzati, come sarebbe adesso quella salita. Grazie per la risposta, e soprattutto per questa bella relazione.
Antonio
Grazie! Non ho (ancora?) percorso la cresta del Boccareccio, di cui mi ha parlato mio papà che l’ha ripetuta negli anni Settanta anche lui con Dino Vanini. Il suo racconto era simile al tuo e credo che per questo motivo oggi sia praticamente abbandonata, mentre il canale che porta alla finestra è diventato un classico dello sci ripido. Per percorrerla credo sia da fare in inverno o a inizio stagione, col canale ancora nevoso. Sicuramente si tratta di una bella avventura, dove l’ambiente, che descrivi così bene, è il grande protagonista.
Un caro saluto
Luca