Pubblichiamo il racconto della prima ascensione di una via di carattere “alpinistico moderno”, realizzata da Fabrizio Manoni e Giovanni Pagnoncelli il 20 e il 26 settembre 2019 con l’uso di spit alle soste e dove non era possibile utilizzare protezioni veloci. La via si sviluppa nel selvaggio circo di Cornera, sul Pilastro Micotti, a sinistra della classica via Micotti Signini della Cresta est. La via conta già 2-3 ripetizioni ed è meritevole di essere percorsa. Rispetto allo schizzo pubblicato è forse più logico saltare la terza sosta, anche se si perde il traversino esposto. La roccia è buona, anche se un po’ lichenosa. La discesa avviene con tre doppie (con 2 mezze corde da 60 metri). Materiale: friends dai piccoli al 2 BD. Avvicinamento 2 ore. Dall’ultima sosta è possibile collegarsi alla Micotti -Signini e proseguire fino in cima al pilastro, per scendere poi lungo la Normale del Cervandone o attraversando al colletto col Pizzo Bandiera e quindi ai piani della Rossa
di Fabrizio Manoni e Giovanni Pagnoncelli, settembre 2019
Ieri (20 settembre 2019 ndr). Saliamo a Devero io e Giovanni poco convinti. La densa nebbia piovviginosa che ci ha accompagnato dal fondovalle non accenna a diradarsi. L’erba che calpestiamo è fradicia come avesse piovuto. Confidiamo nelle previsioni meteo sperando che sopra ad una certa quota riusciremo a bucare il tetto di nubi. Solo al Bivacco Combi e Lanza a oltre 2400 metri di quota ci raggiunge la luce del sole. Quasi accecante. Sopra di noi le fantastiche guglie del Cornera. Sotto uno spesso ed impenetrabile mare di nubi. Su queste montagne è iniziata 40 anni fa la mia vita di alpinista. E queste montagne le ho sempre nel cuore. Ci dirigiamo verso il nostro progetto di scalare una via sul bel pilastro del Cornera. A sinistra della classica Micotti e Signini del 1966 con la quale per etica e rispetto non vogliamo interferire. Facciamo tutto con calma. L’idea è di individuare una linea bella e scalabile e di portare quassù l’attrezzatura in attesa che l’Ente Parco autorizzi il nostro progetto. Ci siamo portati avanti con la speranza di un assenso. Altrimenti riporteremo giù tutto. Facciamo le cose con molta calma e ci godiamo i caldi raggi di sole. Il telefono prende ed anche il traffico dati. Guardo i messaggi e le e-mail mentre la nebbia si alza ancora e nasconde il pilastro. L’autorizzazione del Parco è arrivata. Iniziamo a scalare su una placca difficile, poi una stupenda fessura già salita anni fa probabilmente dalle guide Alberto Paleari o Mauro Rossi. Poi ancora una lama verticale ed un muro liscio dove probabilmente si sono infranti tentativi precedenti. Arriviamo ad un pulpito sospeso nel vuoto e da lì attraversiamo in piena parete. É tardi. Io ho il compleanno del mio figlioccio Giacomo e Giovanni non vorrebbe arrivare troppo tardi dai suoi bimbi. Torneremo appena possibile per finire l’opera 😊
Fabrizio Manoni
Questa volta il progetto è di Fabrizio. Me ne ha parlato, non mi interessa molto, lo metto un attimo da parte perché per questo genere di progetti devi avere una spinta, un’energia fuori dal comune. Parti presto all’alba o, addirittura, al buio, ti carichi la schiena come un asino, cammini ore spesso su terreni di merda, rischi, a seconda della posizione nella cordata o di precipitare insieme ad un masso o di riceverlo in testa, passi ore fermo ad aspettare che la corda si muova, scali (la parte veramente divertente) poco o nulla, prendi freddo, rischi di trovarti in situazioni inimmaginabili. Insomma, qualunque persona dotata di un cervello, anche di bassa lega, lascerebbe perdere. A meno non si tratti del proprio obiettivo, identificato, studiato, sognato, o di inconsapevolezza dettata dall’inesperienza. Per quanto mi riguarda non si trattava né del primo, né del secondo caso. Però c’erano due fattori che mi attraevano verso la condivisione con Fabrizio di questa idea: la voglia di passare una giornata in montagna insieme ad uno che difficilmente scende a compromessi ed al quale, quindi, bisogna adattarsi se si vuole essere attivi insieme, l’altra di vedere cosa significa chiodare dal basso e sul ‘duro’. Esperienza che mi mancava perché ho anagraficamente perso il periodo 1995-2003, anni del secondo ‘Nuovo Mattino Ossolano’, in cui un entusiasmo probabilmente perso per sempre, invadeva le nostre valli e coinvolgeva un folto gruppo di scalatori con talento e non. Ebbene, dopo aver completato il mio di progetto, pur speranzoso che non sia l’ultimo di questo ennesimo caldo autunno perché altri sogni campeggiano dentro la mia scatola cranica, sono costretto a dare fondo alla mezza parola presa a Fabrizio, anche se a denti stretti. Più che altro perché dò per scontato che quella che ha in mente Fabrizio è sicuramente una linea dura, che non mi darà soddisfazione perché fuori dalle mie possibilità sia da uno che da due. E quindi accetto solo per i motivi sopracitati, motivazioni che raggiungono a malapena la sufficienza per giustificare quanto sopra. Con la speranza che un alpinista una volta accetta la proposta dell’amico e l’amico accetta, la volta successiva, la tua. Eccoci al Bivacco Combi e Lanza dopo una bella camminata sotto il peso di 25 spit, 5 soste con catena, martello, trapano, chiave e tutto quello che ci va dietro ad andare su terreno vergine. Classica giornata in cui la nuvolosità stagna sotto una certa quota questa volta decisamente più alta del normale, tra i 2400 e i 2600 m. Fabri aveva già visto dove attaccare anche se mi chiede per rispetto e cortesia. Mi lascia l’onore di fissare il primo spit più alto possibile ma con i piedi ancora per terra, si prepara, si mette tutto addosso a parte i friends grossi che se servono gli passerò col cordino di recupero e parte su un muro che col cazzo io mai avrei affrontato alla cieca come ha fatto lui. Riesce, senza l’aiuto di cliff e nemmeno di friends che non stanno in fessure svase, a fissare il secondo spit sghisando mani e piedi ad intermittenza. Al suo posto avrei esaurito in 5 minuti le energie di un’intera giornata. Da lì prosegue verso un tettino, posiziona un friends a sua detta buono, gli consiglio di andare a sinistra per non infognarsi su una sezione improteggibile e, senza pensarci troppo, si butta in un traverso enigmatico che ci mette poco a risolvere e da li a volare in su verso le successive difficoltà. Posiziona due attrezzi senza spenderci il tempo e la meticolosità che i avrei messo da buon fifone e si lancia su un traverso ancora più improbabile che questa volta lo fa addirittura borbottare. Capirò solo successivamente al momento del mio turno sia i motivi del suoi borbottii, sia l’aleatorietà dei passi stessi. Altro spit, distante quasi 10 metri dal precedente e via per una fessura più facile ma con sassi instabili fino ad un quarto ed ultimo spit dei 35 del muro. Lo sento alzare la voce in uscita dicendo che è obbligato e sparisce sulla cengia erbosa. Scalo successivamente ogni singolo passo ammirando la capacità ma, soprattutto, la voglia di mettersi in gioco del mio socio. In ultimo analizzo razionalmente l’aspetto puramente tecnico del tiro aperto che contiene tutto quanto di moderno rappresenta un tiro moderno: estetica, difficoltà, continuità, riduzione al minimo dei fori. Se fosse un tiro di falesia ben spittato, sarebbe il più ripetuto. Dalla cengia erbosa decidiamo di seguire la logica classica. Ci sono diverse possibilità di forzare il fantastico e verticalissimo Pilastro ma questo è inciso per una lama/fessura così estetica e così logica che tutto il resto perde senso. Ci abbandoniamo alla logica e chiedo a Fabrizio di lasciarmi di piacere di scalarlo anche se diamo per scontato che questo tiro sia già stato salito. Pur trovando un chiodo a metà non ci pentiamo affatto di aver fatto questa scelta. Arrivo in cengia con un bel passo di sesto, faccio sosta e recupero Fabrizio. Siamo nel cuore del Pilastro, vediamo un cordino di calata a sinistra, un chiodo che sicuramente termina un tentativo dritto sopra di noi alla base di un muro improteggibile. Fabrizio sale a sinistra verso la logica di un diedro/fessura che lo rimbalza a causa di una roccia che si sgrana eccessivamente. Attraversa a destra verso il chiodo, analizza il muro, verifica che non è facile ma che è scalabile. Dal chiodo pianta uno spit, prova il passo e va oltre, ne pianta un altro e riesce ad attraversare a sinistra verso il diedro. Da lì, con un altro spit per evitare di proteggersi su un masso dubbio, ne fissa un altro ed esce in piedi su un pilastro dove fa sosta. Da secondo raddrizzo il tiro scalando una bellissima lama ed arrivo al chiodo, provo il passo di equilibrio, mi appendo, è difficile ma lo reputo fattibile. Sappiamo che non finiremo la via e sto già pensando che al ritorno mi piacerebbe provarlo da uno, il tiro esce stupendo e relativamente ben protetto su ottima roccia solo un po’ da pulire. Dal pulpito su cui ci troviamo si vive la piena verticalità del pilastro ed il fantastico panorama sulla Piana di Devero. A destra un traverso orizzontale di 8 metri è troppo logico per non essere scalato e troppo fotogenico per non essere fotografato. Senza perdere un secondo optiamo di proseguire questo traverso, di fissare uno spit a metà e tornare la prossima volta per finire la via, ormai abbiamo risolto la chiave del pilastro e si tratta solo di raggiungerne la vetta. Scendiamo scaldati da un gradevolissimo, col piacere in mente di aver fatto qualcosa di bello e con l’obiettivo, credo reciproco, di conoscerci un po’ di più scambiando e trattando tantissimi argomenti, opinioni e visioni sulle sfaccettature della vita. Ci diamo ipotetico appuntamento per la settimana successiva. Incredibilmente l’appuntamento viene rispettato e ci troviamo a Devero a partire con l’ombrello sotto una pioggia battente. Le previsioni danno netto miglioramento per il pomeriggio ed io sono fiducioso. Balliamo in giro per lasciare che anche la nuvolosità lasci al posto al caldo sole della settimana precedente ma questa non accenna a dissolversi. Attacchiamo a mezzogiorno inoltrato in condizioni invernali. Parte direttamente dal secondo tiro Fabrizio lottando con la roccia come sapone e le dita delle mani gelate. Lo seguo imprecando per il freddo e le condizioni della roccia proibitive. Ormai siamo lì, vogliamo finire a costo di soffrire ma il mio già precario margine mi fa desistere dal provare la libera del tiro successivo e così continua Fabrizio. Che libera, ovviamente, il tiro. In sosta sostituiamo la catena con due semplici spit perché da lì non passeremo successivamente per le calate. Parte nuovamente Fabrizio, scala il traverso, sale agile fino ad una lama appoggiata che lo ferma. Prova, si sposta, ritorna, ci pensa, trastrulla, poi senza troppe menate lo vedo posizionarsi bene con i piedi, strizzare una tacca e tirare con la mano destra e a tutta forza verso l’esterno la lama gettandola nel vuoto. Non mi ha impressionato tanto il gesto in sé a cui sono abituato perché di massi e lame ne ho gettati tanti, quanto la decisione che ha impiegato per farlo. Normalmente non si effettua mai la pulizia quando sei in apertura per questioni di sicurezza, la caduta del masso potrebbe prendere le corde e danneggiarle o addirittura tranciarle. Lui l’ha fatto perché quella era l’unica cosa che doveva fare per garantire la sua stessa sicurezza. Grazie a questo gesto si è fatto strada per raggiungere la cengia successiva. Da secondo pulisco i detriti e la terra e discutiamo sul proseguo. Da lì parte un altro muro ancora perfettamente verticale e repulsivo, a sinistra si perdono le difficoltà, a destra, probabilmente ci si raccorda alla via classica. Decidiamo allora di dare continuità alla linea seguendo una difficile fessurina che muore su una sezione liscia e improteggibile. In condizioni non invernali come quel giorno sarei salito io scalando in artificiale e protezioni veloci fin dove lo permetteva la roccia per poi continuare in artif a spit obbligandomi ad una chiodatura sistematica. Ma sono contento che alla fine abbia scalato il tiro Fabrizio chiodandolo obbligato e dando prova del suo coraggio e delle sue capacità da alpinista buttandosi in un ignoto rebus verticale e tracciando un tiro di alta difficoltà ma da autore, degno dei migliori chiodatori francesi degli anni ’90. E sono fiero di aver sofferto un freddo, come pochi nella mia vita ricordo di aver patito, perché la via, che si concluderà nel tiro successivo con difficoltà ora più facili è proprio bella e meritevole di ripetizione. Entrambi gli obiettivi, in conclusione, centratI: esperienza tecnica di assoluto valore grazie all’audacia del compagno e approfondimento della conoscenza dello stesso con condivisione di forti emozioni. Ancora una volta la sofferenza ed i timori lasciano spazio ai ricordi che ti accompagneranno per sempre. E la decisione del nome della via sarà tutta di Fabrizio che la dedicherà ai cari che dall’alto ci hanno visto combattere.
Giovanni Pagnoncelli
Credo di aver effettuato la prima ripetizione della via con Alessandro, sicuramente meritevole di essere ripetuta anche se presenta un piccolo neo: sia il secondo e parte del terzo tiro appartengono a una variante di Alberto Paleari alla Micotti Signini, variante aperta senza spits.
“Siamo nel cuore del Pilastro, vediamo un cordino di calata a sinistra, un chiodo che sicuramente termina un tentativo dritto sopra di noi alla base di un muro improteggibile.”
Ecco quel chiodo non termina un tentativo, ma semplicemente la via Paleari va a destra, in leggera discesa, fino alla sosta (visibile). Ora sono convinto che quel tiro sia totalmente snaturato dalla presenza degli spits poco sopra. Peccato.
Pietro Garanzini
Grazie a Pietro Garanzini per la puntualizzazione, che tocca un tema importante al quale sono sensibile come alpinista ma anche semplicemente come frequentatore delle montagne: quello dell’uso di mezzi artificialmente infissi per realizzare un obiettivo, quale che esso sia.
Ho ripetuto a mia volta la via, che ho trovato difficile e spesso entusiasmante come arrampicata, e avevo notato che, sulla destra in basso del knife blade che sembrava rappresentare l’ultimo punto raggiungibile con mezzi tradizionali, c’era uno spuntone con annesso arcaico cordino, che poteva essere tanto di calata quanto di sosta. Apprendo con piacere che il Paleari era arditamente passato di qui e, per non bucare?, si era ricongiunto alla Micotti – Signini.
Anche la lunghezza sottostante era chiaramente percorribile, e apprendo che era effettivamente stata percorsa: un ruvido “sesto classico” su diedri e lamoni.
Il problema degli spit: se, quando e quanti, è scottante, e ne parliamo altrove in questo sito.
Benvenuti ulteriori contributi
Luca Mozzati